MSF - Lilongwe e Dowa - Malawi #1

Autore: Roberto La Tour

Arrivo in Malawi

Più di un mese in Malawi! E sembra ieri che sono arrivato.
Dopo una decina di giorni ad Atene dove abbiamo mangiato deliziosi souvlaki e ho scoperto un sofisticatissimo software di contabilità in DOS, siamo partiti insieme con una simpatica infermiera greca di nome Irini (Pace) alla volta di Lilongwe con una prima tappa di ben 15 ore a Roma. Lì, carichi dei nostri bagagli e di tutto il materiale che MSF ci aveva affibbiato, abbiamo avuto la simpatica sorpresa di scoprire che il deposito bagagli dell'aeroporto è chiuso. Ci avviamo con tre carrelli stracarichi verso la stazione, ma sono deviato a forza dalle due signore in direzione della Hertz, dove affittiamo un'automobile nella quale incredibilmente riusciamo a stipare tutto. Le ragazze scoprono con loro delizia la Città Eterna: il Pantheon, Piazza Navona, Campo dei Fiori, Piazza Farnese, Piazza San Pietro. In Piazza Farnese abbiamo suonato a tutti i campanelli nella speranza di trovare Edoardo (lo abbiamo pure descritto al giornalaio: alto, magro, con tanti bambini biondi; ci ha indicato le tre case più probabili). Niente Edoardo, peccato.
A notte fonda, con due ore di ritardo, prendiamo un volo strapieno per Addis Abeba, sul quale le hostess ci svegliano brutalmente per darci delle salviettine umide; ho litigato con una che voleva a tutti i costi svegliare Irini ("come fa a sapere che non vuole essere svegliata?"). A Addis ci fanno cambiare tre volte sala d'imbarco, ci troviamo mescolati ad un numeroso gruppo che tornava dal pellegrinaggio alla Mecca. Piantavano un tale casino che abbiamo rischiato di perdere il volo per Lilongwe.
Arriviamo finalmente più morti che vivi a Lilongwe, dove convinciamo Spiros, il capomissione attuale, che un briefing intenso sul progetto sarà più effettivo dopo una notte di sonno. 

Lilongwe è una città estremamente sparpagliata, immersa nel verde. Ci sono due centri, uno, l'"old town", con un po' di negozi, alcuni supermercati di cui uno molto moderno, alcuni bar e qualche ristorante, e un grande mercato. Molto più lontano c'è un altro centro, il "City Center", dove si trovano le principali agenzie delle Nazioni Unite e simili. E' verde, d'accordo, ma totalmente artificiale e privo di vita.
Noi siamo installati in uno dei numerosi quartieri residenziali, la cosiddetta "area 9", dove ci sono delle case basse (pochissime case qui hanno un piano rialzato) circondate da muri sormontati da filo spinato. Noi abitiamo in una di queste, all'interno del muro c'è una sorta di vasto cortile con la nostra casa, l'ufficio, e una casetta per il personale. Pe fortuna c'è qualche albero, molti dei quali piantati da Spiros: papaie, manghi, fiori vari. Ci scorazza Pepi, una cagnetta molto allegra che ha l'abitudine di andare nelle pozzanghere, e poi di venire a farti le feste. Per fortuna le ho insegnato il tedesco: quando entra in casa, le dico "raus!" e quella esce con le orecchie basse e la coda tra le gambe. In casa fissi abitano Spiros, fino a pochi giorni fa Maria Areti (Marietta), l'amministratrice, e io. Irini e Michel, il Logista del Burundi, ci vengono il weekend e in settimana quando hanno da fare a Lilongwe. Marietta è andata via, ed è stata sostituita da Lorella, una simpatica modenese che vive qui con il marito, e che quindi non abita con noi.
Nella casa del personale vive Mister Bacali, che ha più di settant'anni, è molto simpatico, non riconosce le calze e si veste elegantissimo per andare a messa la domenica. Purtroppo le nozioni culinarie di Mr Bacali consistono in carne tritata con tanto olio, pollo in umido con tanto olio, e pasta scotta lasciata senza olio per ore in attesa che sia pronto. Ora si occupa solo più della casa e dei nostri vestiti, pazienza se mescola i calzini, ma la cucina è fatta da Timothy, che ha imparato a cucinare a casa di tedeschi e sa fare la pasta al forno, il pollo farcito e persino la lingua. 

La vita sociale consiste nell'andare a mangiar fuori al ristorante indiano, quello cinese oppure quello etiope; andare a bere in dei bar affollati e rumorosi dove la comunità internazionale si mescola con la borghesia locale composta da indiani, libanesi e alcuni malawiani, andare a ballare in dei posti ancora più rumorosi dove mi faccio regolarmente accusare da delle ragazze ignobili e ubriache di bere la loro birra (detesto quei luoghi, cerco di evitare di andarci quanto possibile), o andare in un "bottle store". Questi ultimi sono dei bar molto grezzi, dove su dei muri scrostati è appeso di traverso un calendario vecchio di tre anni, una pubblicità della fanta e quella dei preservativi Chisango. Si beve birra, ottima la Carlsberg "green", coca-cola e fanta, e una strano beveraggio venduto in cartoni simili a quelli del latte, il Chibuko "shake-shake". E' come una birra di miglio, simile a ciò che preparano tradizionalmente nei villaggi di molte zone d'Africa: una specie di minestra beige con dei cereali a pezzettini diluiti, il tutto un po' alcolico. La luce è data da una lampadina nuda appesa a un filo, e la musica, purtroppo spesso forte pure lì, da un apparecchio gracchiante perché le casse sono troppo piccole per il volume a cui è regolato. 

Finora vi ho parlato di Lilongwe, ma il progetto è a Dowa, a 58 Km da qui. E una piccola cittadina in mezzo alle colline, dove MSF ha messo su questo progetto sull'AIDS e le malattie sessualmente trasmissibili. Lì abbiamo una casa, più piccola di quella di Lilongwe, ma con più stanze. L'ufficio è in una casa separata, anche lui con stanzette. Dowa è raggiungibile con uno sterrato polveroso, e la città si snoda intorno alla via principale, dove ci sono alcune botteghe, un mercato e in mezzo alla strada delle donne vendono cassava. Le case sono sparpagliate tra i campi di granoturco, e per andare dalla casa all'ufficio e al mercato bisogna seguire pittoreschi sentieri e attraversare un ponticello su un rigagnolo. La sera per le mondanità c'è meno scelta che a Lilongwe, ma ci sono almeno tre bottle store, e Timberland, quello di moda al momento, permette di ballare, bere birra, osservare le CSW (Commercial Sex Workers = bagasce) tentare di accalappiare clienti. Se si ha fame, davanti all'ingresso dei ragazzi grigliano pezzetti di pollo, mentre un po' più in là si possono comperare patate fritte su dei carretti all'inizio della strada del mercato, dove queste improvvisate friggitorie sono quasi le uniche luci visibili in giro. Per cambiare aria la sera, si può andare al campo profughi di Dzaleka, a nove chilometri, dove in un piccolo dedalo di viuzze tra le capanne ci sono numerosi bar con musica e griglerie che vendono spiedini di carne e interiora di capra. Qui si parla francese; la maggior parte dei rifugiati viene dal Congo, dal Rwanda e dal Burundi. 

L'ospedale, vicino al mercato, è stato costruito nel 1931 e ampliato successivamente. Come costruzione non è male, tutto in mattoni, con spazio e verde tra un reparto e l'altro. Se invece parliamo di come è organizzato, come ci lavora il personale sanitario e come vengono curati i pazienti, le cose cambiano. Innanzitutto c'è un solo medico, il DHO (District Health Officer), che potremmo considerare un direttore sanitario e primario. E' responsabile non solo dell'ospedale, ma anche dei vari health centres, specie di ambulatori regionali riforniti in medicinali dall'ospedale. Ora il DHO è molto di rado in ospedale, ancora di più in reparto, e potete immaginare negli health centres! I malati sono visitati dai clinical officers, sorta di via di mezzo tra medici e infermieri, le medicine sono distribuite dalle infermiere, e poi ci sono i patient attendants, che fanno tutto il lavoro. Ho assistito a una scena nella quale Spiros ha dovuto mostrare per dieci volte di fila a uno di questi poveracci come si piega un panno attorno ai ferri da sterilizzare, e più tardi mentre pazientemente, ne seguiva uno che faceva la medicazione attorno al piede di un uomoaffetto da ulcera tropicale: sembra che manchi la pelle sopra tutto il piede, bisogna disinfettare, il paziente stringe i denti dal dolore, poi mettere le bende. Il povero attendente teneva con una mano tremante una pinza con una garza sterile, l'angolo della garza toccava la gamba, e Spiros: "no, butta via quella garza, non è più sterile, ricomincia". Tutta la scena con il paziente seduto su una sedia arrugginita di fianco ai cessi maleodoranti (bel posto per fare le medicazioni, ma è l'unico possibile in reparto) mentre uno che ha finito i suoi bisogni si trascina sulle stampelle per tornare a letto. Un'infermiera che venisse a dare una mano? Manco l'ombra.
Irini l'altro giorno ha assistito alla scena seguente: due medical assistants stavano curando un bambino urlante; in quel momento passa un'infermiera, uno di loro le dice: "infermiera, non abbiamo più garza!" Quella tira dritto, dicendo: "è finita". Al che Irini la blocca e dice: "ma come! Proprio ieri noi (MSF) ve ne abbiamo data tantissima!", al che quella risponde, ah già, è vero. Sembra sia una situazione comunissima, le infermiere sono completamente menefreghiste, non toccano mai i pazienti, si limitano a dare le medicine e a mettere le flebo. Quelli che veramente lavorano, purtroppo hanno una formazione scarsissima, sono gli attendenti. 

Il nostro progetto non ha solo una componente medica, c'è anche la parte di "comunicazione". L'altra domenica siamo andati ad assistere a una sessione di arte drammatica di un club della gioventù. Da Dowa, prendiamo uno sterrato seguendo un furgone sul cui cassone un gruppo di ragazze e ragazzi cantavano. Arrivati a destinazione, il prato dinnanzi a una scuola vicino a vari villaggi, una di loro a preso il megafono e è partita di corsa urlando come un'ossessa per annunciare alla gente che sarebbe iniziato uno spettacolo. Aspettando che arrivasse il pubblico, i giovani, soprattutto le ragazze, si sono messe a cantare e ballare, coinvolgendo anche noi. Una canzone era carina, tutti in tondo, con a turno uno che va in centro, chiede "conosci il mio nome?", a cui tutti rispondono "noo!", allora dici il tuo nome, e loro tutti in coro a cantare "tu ti chiami…" "io mi chiamo…" e così via. La seconda era più sorprendente: ballando a ritmo, le ragazze cantavano "AIDS is a killer, that is why people die" "L'AIDS è un killer, è per questo che la gente muore, oeh, oeh, tralala". Dio mio. Poi finalmente arriva il pubblico, i bambini da una parte, i notabili dall'altra, il resto di lato, e vengono rappresentati tutta una serie di sketch, nei quali due coppie vanno a fare il test dell'HIV, con "counselling" prima e dopo, e un numero (troppo) elevato di messaggi: prevenzione, fedeltà, preservativi, non escludere chi è positivo, occuparsi dei malati, eccetera. E' stato comunque molto interessante, e potete immaginare il lavoro che c'è dietro l'organizzazione di questi "club". 

Questo weekend siamo andati al lago. In un posto molto bello, vicino a Salima, c'è una lunga spiaggia di sabbia dorata con vari alberghetti e ristorantini. Abbiamo dormito cullati dal rumore delle onde, abbiamo mangiato pescegatto alla brace e giocato a bigliardo. Il giorno dopo abbiamo fatto una gita in barca, visitato un allevamento di pesci da esportazione per acquari (i pesci di quasi tutti gli acquari tropicali di acqua dolce del mondo vengono dal Lago Malawi), mangiato hamburger sulla spiaggia perché avevano finito il pesce e, dopo aver convinto le ragazze che attraversare tutta la baia a nuoto è pericoloso, siamo tornati all'albergo a piedi con una bellissima passeggiata e siamo finalmente tornati a Lilongwe dove abbiamo messo in freezer i pesci comperati sul posto.
Abbiamo riaccompagnato l'autista a casa, e mentre aspettavamo il nostro turno a un incrocio una macchina ne ha investito in pieno un'altra che girava in quel momento. Quest'ultima è stata sbattuta contro la nostra, meno male che l'urto è stato interamente assorbito dalla "bull bar", una specie di armatura che MSF mette sempre davanti alle auto. Per fortuna ci sono stati solo dei feriti lievi, che abbiamo dovuto accompagnare noi all'ospedale dopo essere stati in una specie di antro oscuro chiamato polizia. Il pronto soccorso dell'ospedale di Lilongwe è spazioso, pulito e ben tenuto, peccato che non ci sia assolutamente nessuno a occuparsi dei pazienti. Delle donne allattanti erano lì apparentemente da molto, e se non fossimo andati noi a bussare a una porta segnata "sister office", sia loro che i nostri incidentati sarebbero ancora lì ad aspettare.


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